14 Ago DEGRADO URBANO: QUALE TOLLERANZA?
La recente scelta politico-amministrativa, da parte della amministrazione comunale di Firenze, di adottare la formula giuridica della cd. “ordinanza contingibile ed urgente” per far fronte alla emergenza dei lavavetri, la ancora più recente richiesta tecnica, da parte di talune giunte locali di altre città italiane, finalizzata ad attribuire veri e propri poteri di polizia ai Sindaci, e con esse le continue iniziative “securitarie”, promosse dalle amministrazioni locali, hanno evidenziato, con sempre maggiore chiarezza, come nel nostro Paese la sicurezza venga sempre più percepita come bene assoluto e primario dei cittadini, e come tale richiesta in modo da essere garantita non soltanto in relazione ai fenomeni “tradizionali” di criminalità organizzata e di microcriminalità, ma anche con riferimento agli aspetti di cd. “illegalità diffusa”, presenti con particolare evidenza nelle realtà urbane di medie e grandi dimensioni, spesso sotto forma di degrado e disordine urbano.
La opinione pubblica ha infatti progressivamente maturato una particolare sensibilità – ed un connesso, crescente senso di insicurezza – nei confronti di fenomeni, spesso diffusi, di utilizzo disordinato ed illecito di spazi pubblici, quali gli assembramenti rumorosi notturni, il consumo pubblico di bevande e stupefacenti, le occupazioni e gli imbrattamenti degli edifici e della pubblica via.
Ciò ha necessariamente comportato, in termini di tentativi di risposta “politica” alla crescente partecipazione e vivissima sensibilità ai problemi di ordine pubblico da parte della cittadinanza, una modifica, talvolta scomposta, dei tradizionali “modelli di gestione” della sicurezza urbana, sino a giungere – estendendo ad esempio oltre ogni limite la previsione dell’articolo 650 del Codice Penale – alla proposta di sanzioni di natura penale per condotte non contemplate dall’ordinamento, e sino a ricomprendere nella sfera dell’illecito ogni manifestazione comunque in grado di incidere non solo e non già sulla effettiva tranquillità sociale, ma sulla stessa “percezione” di sicurezza.
In un’ottica di serena responsabilità, e lungi dal ricorrere ad un datato quanto controproducente “panpenalismo”, va piuttosto evidenziato come i modelli di “sicurezza partecipata” più avanzati ed efficaci, anche sullo scenario internazionale, siano risultati quelli sempre più incentrati non più esclusivamente sugli interventi necessari per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica in senso stretto, ma anche sull’assunzione di iniziative – concordate tra i soggetti istituzionali – volte a migliorare la vivibilità del territorio e la qualità della vita, sul tentativo di coniugare prevenzione, mediazione dei conflitti, controllo e repressione, su iniziative sul versante delle politiche integrate di sicurezza, e su intese su modelli operativi sempre più volti a favorire la collaborazione tra Prefetture, Forze di Polizia ed amministrazioni locali, mediante la definizione strategica e condivisa di linee sinergiche di azione, attraverso la predisposizione di iniziative organiche e coordinate che vedano anche il coinvolgimento di ulteriori Enti e soggetti istituzionali o esponenziali mirate ad elevare i livelli di sicurezza e vivibilità urbana integrando l’attività di prevenzione e contrasto di illeciti svolta dalle Forze di Polizia, con iniziative di riqualificazione del tessuto urbano e con il recupero di forme di degrado ambientale e di quelle evidenti situazioni di disagio sociale che costituiscano fattori di insicurezza.
Tutto ciò va senz’altro incentivato, dando il massimo impulso a tutte le forme di espressione della cd. “polizia di prossimità”, ricercando ogni possibile, ulteriore valorizzazione degli aspetti operativi di controllo del territorio, operando una continua mappatura delle aree a rischio sulle quali intervenire con mirate azioni di controllo del territorio, anche allo scopo di disporre degli appropriati elementi di valutazione delle emergenze, verificando la effettiva attualità della distribuzione dei presidi di controllo, anche ai fini di una possibile ridistribuzione, nell’ottica di un più incisivo controllo del territorio e con possibile recupero di personale di polizia da destinare ai servizi esterni, attraverso il rafforzamento della integrazione operativa tra gli operatori della sicurezza, attraverso il miglioramento dei percorsi formativi e di aggiornamento professionale destinati agli operatori delle Forze di Polizia per la acquisizione di quella professionalità strumentale necessaria alla attuazione degli obiettivi di istituto, ovvero valorizzando tutte le iniziative di interscambio informativo, quali l’interconnessione delle sale operative delle polizie locali, e favorendo in definitiva la diffusione di strategie condivise di azioni sì articolate in base ai diversi ambiti di competenza, ma comunque concorrenti sul territorio.
Il “rispetto del confine”, da parte di ogni soggetto istituzionale, appare in quest’ ottica certo preferibile rispetto al continuo ricorso a dannose sovrapposizioni di competenze, ad inutili forzature degli strumenti giuridici, od al ricorso ad ulteriori “leggi speciali”, che talora vengono varate sull’onda emotiva di emergenze poi dimenticate, e senza la forte preoccupazione per il rischio di una ulteriore ondata di procedimenti giudiziari – per fattispecie di limitatissimo disvalore sociale – in un paese che da decenni non riesce a dotarsi di una civile amministrazione della giustizia, già oltremodo lenta ed inflazionata.
E ricordando magari come già duecento anni or sono uno dei più grandi pensatori del nostro Paese, Cesare Beccaria, avesse ammonito gli italiani a riflettere sul senso di una “alfine inutil” severità della pena.